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NATURAL BORN KILLERS (1994 – regia di Oliver Stone)


Che cos'è un omicidio, amico? Tutte le creature di Dio uccidono, in un modo o nell'altro. Guarda le grandi foreste: lì hai specie che uccidono altre specie, la nostra le uccide invece tutte allegramente foreste comprese: solo che la chiamiamo "industria" non omicidio.




Di Giuseppe Fasano

Oliver Stone decide, nel 1994, di dirigere questo film la cui sceneggiatura originaria era di Quentin Tarantino. Le modifiche apportate da Stone creano un malcontento talmente esagerato del regista de “Le Iene” che addirittura i due arrivano ai ferri corti: Quentin vorrebbe che il suo nome non apparisse neanche tra i titoli di coda. Ma tant’è.
Certamente il processo narrativo di Oliver Stone, in “Natural Born Killers”, non è molto dissimile da quel sopravvalutato film biografico sulla storia di Re Lucertola Jim Morrison (“The Doors” – che Stone diresse qualche anno prima): si respira una sorta di “aria lisergica”, trasognata, surreale, colma di citazioni (“filmati dentro filmati”, scene di guerre, marce naziste, immagini staliniane, conflagrare di bombe all’idrogeno, facce a metà tra il kitsch e l’horror) sino al punto di confondere lo spettatore riguardo all’obiettivo principale del film, che sembra essere una riflessione talmente forzata sul tema della violenza che, ovviamente, il risultato non è comprensibile per molti. 
Nulla di tutto questo però toglie al film l’aggettivo di “capolavoro”.



La storia è quella di Mickey e Mallory Knox, una sorta di Bonnie e Clyde dell’omicidio seriale con la passione per i funghi allucinogeni. Una coppia che se ne va in giro per l’America a seminare morti ovunque come fossero in preda a demoni.
 

Stone sembra voler far dipendere l’abominio umano ad una sorta di entità sovraumana che troneggia “il male”. Questo iniziale tentativo di far comprendere l’accostamento tra il “sub-umano” al “sovra-umano” viene poi successivamente sostituito con una riflessione sui media che può dirsi quasi profetica: Wayne Gale, interpretato da Robert Downey junior, un noto conduttore di un programma televisivo sui serial Killer, sembra quasi assumere il ruolo di “terzo protagonista”. E in effetti lo è: nella ricerca affannosa dell’intervista a Mickey, nel frattempo rinchiuso in un carcere di massima sicurezza insieme a Mallory, si trasforma da giornalista a “stupratore televisivo”: la ricerca dello scoop, lo stare “sulla notizia” con pretese “psicologiste” in un confronto testa a testa in diretta tv con l’assassino, trasformano Wayne Gale in una sorta di “carnefice mediatico”. Una cosa che, di questi tempi, sembra essere di moda nelle nostre tv (e non solo) se facciamo il conto di quante trasmissioni televisive incentrate sugli omicidi si siano sostituite al buon vecchio enterteinment.

Stone, pertanto, azzarda l’ipotesi che la violenza, tanto presente sui media, può addirittura ingigantirsi sotto l’occhio della telecamera sino ad assumere un valore a sé: al di sopra del bene e del male. Lo share televisivo che si erge sulla morale. 
La telecamera che diventa un mostro per creare un altro mostro. L’occhio ipocrita di una televisione che, credendo di riportare fatti di cronaca, finisce per perdere di vista la distinzione tra l’informazione e la creazione artata di uno “show nello show” di per sé violento. Non si capisce, insomma, chi siano i cattivi e i buoni, per farla breve.



Il cast è comunque eccezionale: Stone sceglie come protagonista (Mickey) un attore dal viso luciferino: Woody Harrelson (“Larry Flynt: oltre lo scandalo e il recente “Out of the Furnace” presentato lo scorso anno al Festival del Cinema di Roma), poi la “lolita-incazzata” Juliette Lewis (“Cape Fear” e “Dal Tramonto all’alba”) nella parte di Mallory. Poi ancora Tom Sizemore (“Heat, la sfida”) nella parte del poliziotto con le rotelle fuori posto, e un grande Tommy Lee Jones nella parte del direttore del carcere anch’egli con le rotelle del cervello non del tutto posizionate correttamente.
Insomma, il film, nel suo essere “politically uncorrect”, è un must. Per chi adora i retropensieri sui media. Senza azzardare paragoni improbabili, è un viaggio nella coscienza umana malata paragonabile a quell’Apocalypse Now di ispirazione conradiana: una “foresta” di simboli (abominevoli) che la società occidentale sembra poter controllare, non riuscendoci.

Trailer:





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